N, 27 anni, palestinese nata e cresciuta in
Siria, madre di due bambine : “L’importante era scappare dalla morte”.
La sua storia dal campo profughi di Yarmouk a S. Palomba
Viso giovane e bello, sguardo fiero, occhi chiari. N., 27 anni, palestinese nata e cresciuta in Siria, è una delle donne che da lunedì notte è ospite nel centro di accoglienza di Santa Palomba a Pomezia.
La trovo seduta all’ombra di un albero nel parco giochi del quartiere,
insieme al marito e a un’altra famiglia di rifugiati. Guarda le figlie, 3
e 4 anni, giocare sulle giostre. Tardo pomeriggio, il parco è vivo: i
bambini giocano, gli adulti chiacchierano. Da una parte un gruppo seduto
sul prato, due donne col capo coperto. N. vuole parlare, raccontarmi la
sua storia, e lo fa con un sorriso dolce e amaro insieme, gli occhi
lucidi.
“Io sono nata e cresciuta nel campo profughi di Yarmouk, in Siria. Mia madre aveva appena una settimana quando la mia famiglia si è rifugiata in Siria dopo la Nakba del 1948.
Quando tre anni fa è scoppiata la guerra abbiamo perso tutto: casa,
lavoro, soldi. La nostra zona è stata una delle prime ad essere
bombardata, non avevamo più cibo né luce. Mio marito, M. 32 anni, si è
trasferito in Libia e noi, io e le mie figlie, lo abbiamo raggiunto 6
mesi fa, quando la situazione in Siria è diventata insostenibile.
Da Damasco siamo arrivate regolarmente in Egitto attraverso il Libano,
poi ci siamo spostate come potevamo fino in Libia. Un viaggio che ci è
costato seimila dollari. Qualche giorno fa ci siamo imbarcati tutti e 4 su un barcone:
niente valigie, nessun vestito, non abbiamo potuto portare niente con
noi. 300 persone ammassate in uno spazio piccolissimo, senza possibilità
di muoverci, senza servizi igienici, senza alcuna protezione e
soprattutto senza alcuna certezza di toccare terra sani e salvi. Abbiamo viaggiato per 12 ore, poi ci hanno buttati tutti in mare aperto dove ci ha soccorso una grande nave in cui abbiamo trascorso 3 giorni prima di sbarcare a Taranto”.
Il viaggio della speranza: 1000 dollari a
testa, esclusi i bambini, per scappare dalla guerra e dalla miseria,
per consegnare un futuro migliore alle figlie, per salvarsi la vita. Cosa vi ha spinto ad intraprendere un viaggio così pericoloso? “L’importante era scappare dalla morte”, mi dice.
“Una volta a Taranto un’equipe di medici ci ha visitati,
sono stati tutti molto gentili e scrupolosi. Ci hanno portati in un
grande campo sportivo, ci hanno fatti lavare, pulire e vestire, ci hanno
identificato e rilasciato un foglio e con un pullman ci hanno
trasferiti qui. Dopo quello che abbiamo passato negli ultimi anni questo posto sembra un paradiso, perlomeno qui siamo al sicuro”.
Chiedo loro cosa pensano di fare ora, se
hanno parenti o amici da qualche altra parte, se hanno progetti per il
prossimo futuro. “Non abbiamo più soldi – continua N. – Tutto quello che
avevamo lo abbiamo speso per arrivare qui. I nostri parenti in Siria
sono spaventati da questo lungo e rischioso viaggio per scappare dalla
guerra, ma lì non si riesce più a vivere. Il nostro problema più
gmrande, in quanto palestinesi, è che non possiamo andare da nessuna
parte, il nostro paese non è riconosciuto, ci sentiamo odiati da tutti, anche nei paesi arabi. Basta vedere quello che sta succedendo ancora oggi a Gaza”.
Nel frattempo J. e H., le due bambine,
si sono avvicinate e siedono accanto ai genitori. Hanno vestiti e scarpe
di fortuna, gli unici che gli hanno fornito. Anche il resto del gruppo
ha superato la diffidenza iniziale e mi racconta, con il dolore e il
sollievo di chi ha perso tutto ma ha la fortuna di non essere solo, di
avere i propri cari accanto. Stanno bene, sono lontani dalle bombe,
dalla fame, dalla distruzione. Ora è questo che conta.
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