domenica 28 settembre 2014

Leonardo SCIASCIA "Il lungo viaggio" da "Il mare colore del vino" Torino 1973

Era una notte che pareva fatta apposta, un’oscurità cagliata che a muoversi quasi se ne sentiva il peso. E faceva spavento, respiro di quella belva che era il mondo, il suono del mare: un respiro che veniva a spegnersi ai loro piedi.
Stavano, con le loro valige di cartone e i loro fagotti, su un tratto di spiaggia pietrosa, riparata da colline,
tra Gela e Licata; vi erano arrivati all’imbrunire, ed erano partiti all’alba dai loro paesi; paesi interni, lontani dal mare, aggrumati nell’arida plaga del feudo. Qualcuno di loro, era la prima volta che vedeva il mare: e sgomentava il pensiero di dover attraversarlo tutto, da quella deserta spiaggia della Sicilia, di notte, ad un’altra deserta spiaggia dell’America, pure di notte. Perché i patti erano questi - Io di notte vi imbarco - aveva detto l’uomo: una specie di commesso viaggiatore per la parlantina, ma serio e onesto nel volto - e di notte vi sbarco: sulla spiaggia del Nugioirsi, vi sbarco; a due passi da Nuovaiorche... E chi ha parenti in America, può scrivergli che aspettino alla stazione di Trenton, dodici giorni dopo l’imbarco... Fatevi il conto da voi... Certo, il giorno preciso non posso assicurarvelo: mettiamo che c’è mare grosso, mettiamo che la
guardia costiera stia a vigilare... Un giorno più o un giorno meno, non vi fa niente: l’importante è sbarcare
in America.
L’importante era davvero sbarcare in America: come e quando non aveva poi importanza. Se ai loro
parenti arrivavano le lettere, con quegli indirizzi confusi e sgorbi che riuscivano a tracciare sulle buste,
sarebbero arrivati anche loro; “chi ha lingua passa il mare”, giustamente diceva il proverbio. E avrebbero
passato il mare, quel grande mare oscuro; e sarebbero approdati agli stori alle farme dell’America,
all’affetto dei loro fratelli zii nipoti cugini, alle calde ricche abbondanti case, alle automobili grandi come
case.
Duecentocinquantamila lire: metà alla partenza, metà all’arrivo. Le tenevano, a modo di scapolari, tra la
pelle e la camicia. Avevano venduto tutto quello che avevano da vendere, per racimolarle: la casa terragna
il mulo l’asino le provviste dell’annata il canterano le coltri. I più furbi avevano fatto ricorso agli usurai, con
la segreta intenzione di fregarli; una volta almeno, dopo anni che ne subivano angaria: e ne aveva
soddisfazione, al pensiero della faccia che avrebbero fatta nell’apprendere la notizia. “Vieni a cercarmi in
America, sanguisuga: magari ti ridò i tuoi soldi, ma senza interesse, se ti riesce di trovarmi”. Il sogno
dell’America traboccava di dollari: non più, il denaro, custodito nel logoro portafogli o nascosto tra la
camicia e la pelle, ma cacciato con noncuranza nelle tasche dei pantaloni, tirato fuori a manciate: come
avevano visto fare ai loro parenti, che erano partiti morti di fame, magri e cotti dal sole; e dopo venti o
trent’anni tornavano, ma per una breve vacanza, con la faccia piena e rosea che faceva bel contrasto coi
capelli candidi.
Erano già le undici. Uno di loro accese la lampadina tascabile: il segnale che potevano venire a
prenderli per portarli sul piroscafo. Quando la spense, l’oscurità sembrò più spessa e paurosa. Ma qualche
minuto dopo, dal respiro ossessivo del mare affiorò un più umano, domestico suono d’acqua: quasi che vi
si riempissero e vuotassero, con ritmo, dei secchi. Poi venne un brusìo, un parlottare sommesso. Si
trovarono davanti il signor Melfa, che con questo nome conoscevano l’impresario della loro avventura,
prima ancora di aver capito che la barca aveva toccato terra.
- Ci siamo tutti? - domandò il signor Melfa. Accese la lampadina, fece la conta. Ne mancavano due. -
Forse ci hanno ripensato, forse arriveranno più tardi... Peggio per loro, in ogni caso. E che ci mettiamo ad
aspettarli, col rischio che corriamo?
Tutti dissero che non era il caso di aspettarli.
Se qualcuno di voi non ha il contante pronto - ammonì il signor Melfa - è meglio si metta la strada tra le
gambe e se ne torni a casa: che se pensa di farmi a bordo la sorpresa, sbaglia di grosso: io vi riporto a
terra com’è vero dio, tutti quanti siete. E che per uno debbano pagare tutti, non è cosa giusta: e dunque
chi ne avrà colpa la pagherà per mano mia e per mano dei compagni, una pestata che se ne ricorderà
mentre campa; se gli va bene...
Tutti assicurarono e giurarono che il contante c’era, fino all’ultimo soldo.
- In barca - disse il signor Melfa. E di colpo ciascuno dei partenti diventò una informe massa, un
confuso grappolo di bagagli.
- Cristo! E che vi siete portata la casa appresso? – cominciò a sgranare bestemmie, e finì quando tutto
il carico, uomini e bagagli, si ammucchiò nella barca: col rischio che un uomo o un fagotto ne traboccasse
fuori. E la differenza tra un uomo e un fagotto era per il signor Melfa nel fatto che l’uomo si portava
appresso le duecentocinquatamila lire; addosso, cucite nella giacca o tra la camicia e la pelle. Li
conosceva, lui, li conosceva bene: questi contadini zoticoni, questi villani.
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Il viaggio durò meno del previsto: undici notti, quella della partenza compresa. E contavano le notti
invece che i giorni, poiché le notti erano di atroce promiscuità, soffocanti. Si sentivano immersi nell’odore
di pesce di nafta e di vomito come in un liquido caldo nero bitume. Ne grondavano all’alba, stremati,
quando salivano ad abbeverarsi di luce e di vento. Ma come l’idea del mare era per loro il piano
verdeggiante di messe quando il vento lo sommuove, il mare vero li atterriva: e le viscere gli si strizzavano,
gli occhi dolorosamente verminavano di luce se appena indugiavano a guardare.
Ma all’undicesima notte il signor Melfa li chiamò in coperta: e credettero dapprima che fìtte costellazioni
fossero scese al mare come greggi; ed erano invece paesi, paesi della ricca America che come gioielli
brillavano nella notte. E la notte stessa era un incanto: serena e dolce, una mezza luna che trascorreva tra
una trasparente fauna di nuvole, una brezza che allargava i polmoni.
- Ecco l’America - disse il signor Melfa.
- Non c’è pericolo che sia un altro posto? - domandò uno: poiché per tutto il viaggio aveva pensato che
nel mare non ci sono nè strade nè trazzere, ed era da dio fare la via giusta, senza sgarrare, conducendo
una nave tra cielo ed acqua.
Il signor Melfa lo guardò con compassione, domandò a tutti - E lo avete mai visto, dalle vostre parti, un
orizzonte come questo? E non lo sentite che l’aria è diversa? Non vedete come splendono questi paesi?
Tutti convennero, con compassione e risentimento guardarono quel loro compagno che aveva osato
una così stupida domanda.
- Liquidiamo il conto - disse il signor Melfa.
Si frugarono sotto la camicia, tirarono fuori i soldi.
- Preparate le vostre cose - disse il signor Melfa dopo avere incassato.
Gli ci vollero pochi minuti: avendo quasi consumato le provviste di viaggio, che per patto avevano
dovuto portarsi, non restava loro che un po’ di biancheria e i regali per i parenti d’America: qualche forma
di pecorino qualche bottiglia di vino vecchio qualche ricamo da mettere in centro alla tavola o alle spalliere
dei sofà. Scesero nella barca leggeri leggeri, ridendo e canticchiando; e uno si mise a cantare a gola
aperta, appena la barca si mosse.
E dunque non avete capito niente? - si arrabbiò il signor Melfa. - E dunque mi volete fare passare il
guaio?... Appena vi avrò lasciati a terra potete correre dal primo sbirro che incontrate, e farvi rimpatriare
con la prima corsa: io me ne fotto, ognuno è libero di ammazzarsi come vuole... E poi, sono stato ai patti:
qui c’è l’America, il dovere mio di buttarvici l’ho assolto... Ma datemi il tempo di tornare a bordo, Cristo di
Dio!
Gli diedero più del tempo di tornare a bordo: che rimasero seduti sulla fresca sabbia, indecisi, senza
saper che fare, benedicendo e maledicendo la notte: la cui protezione, mentre stavano fermi sulla
spiaggia, si sarebbe mutata in terribile agguato se avessero osato allontanarsene.
Il signor Melfa aveva raccomandato - sparpagliatevi - ma nessuno se la sentiva di dividersi dagli altri. E
Trenton chi sa quant’era lontana, chi sa quando ci voleva per arrivarci.
Sentirono, lontano e irreale, un canto. “Sembra un carrettiere nostro”, pensarono: e che il mondo è
ovunque lo stesso, ovunque l’uomo spreme in canto la stessa malinconia, la stessa pena.
Ma erano in America, le città che baluginavano dietro l’orizzonte di sabbia e d’alberi erano città
dell’America.
Due di loro decisero di andare in avanscoperta. Camminarono in direzione della luce che il paese più
vicino riverberava nel cielo. Trovarono quasi subito la strada: “asfaltata, ben tenuta; qui è diverso che da
noi”, ma per la verità se l’aspettavano più ampia, più dritta. Se ne tennero fuori, ad evitare incontri: la
seguivano camminando tra gli alberi.
Passò un’automobile: “pare una seicento”; e poi un’altra che pareva una millecento, e un’altra ancora:
“le nostre macchine loro le tengono per capriccio, le comprano ai ragazzi come da noi le biciclette”. Poi
passarono, assordanti, due motociclette, una dietro l’altra. Era la polizia, non c’era da sbagliare: meno
male che si erano tenuti fuori della strada.
Ed ecco che finalmente c’erano le frecce. Guardarono avanti e indietro, entrarono nella strada, si
avvicinarono a leggere: Santa Croce Camerina - Scoglitti.
- Santa Croce Camerina: non mi è nuovo, questo nome.
- Pare anche a me; e nemmeno Scoglitti mi è nuovo.
- Forse qualcuno dei nostri parenti ci abitava, forse mio zio prima di trasferirsi a Filadelfìa: che io ricordo
stava in un’altra città, prima di passare a Filadelfìa.
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- Anche mio fratello: stava in un altro posto, prima di andarsene a Brucchilin... Ma come si chiamasse,
proprio non lo ricordo: e poi, noi leggiamo Santa Croce Camerina, leggiamo Scoglitti; ma come leggono
loro non lo sappiamo, l’americano non si legge come è scritto.
- Già, il bello dell’italiano è questo: che tu come è scritto lo leggi... Ma non è che possiamo passare qui
la nottata, bisogna farsi coraggio... Io la prima macchina che passa, la fermo: domanderò solo “Trenton?”...
Qui la gente è più educata. Anche a non capire quello che dice, gli scapperà un gesto, un segnale: e
almeno capiremo da che parte è, questa maledetta Trenton.
Dalla curva, a venti metri, sbucò una cinquecento: l’automobilista se li vide guizzare davanti, le mani
alzate a fermarlo. Frenò bestemmiando: non pensò a una rapina, che la zona era tra le più calme; credette
volessero un passaggio, aprì lo sportello.
- Trenton? - domandò uno dei due.
- Che? - fece l’automobilista.
- Trenton?
- Che Trenton della madonna - imprecò l’uomo dell’ automobile.
- Parla italiano - si dissero i due, guardandosi per consultarsi: se non era il caso di rivelare a un
compatriota la loro condizione.
L’automobilista chiuse lo sportello, rimise in moto. L’automobile balzò in avanti: e solo allora gridò ai
due che rimanevano sulla strada come statue - ubriaconi, cornuti ubriaconi, cornuti e figli di... - il resto si
perse nella corsa.
Il silenzio dilagò.
- Mi sto ricordando - disse dopo un momento quello cui il nome di Santa Croce non suonava nuovo - a
Santa Croce Camerina, un’annata che dalle nostre parti andò male, mio padre ci venne per la mietitura.
Si buttarono come schiantati sull’orlo della cunetta perché non c’era fretta di portare agli altri la notizia
che erano sbarcati in Sicilia.
Tratto da

lunedì 22 settembre 2014

LA STORIA DI AMIRA. Una storia vera nella società globale del Duemila.



Amira è venuta dalla Libia. Una fuga da una famiglia e una cultura che non accettava la sua autonomia di pensiero e la sua gioia di vivere. 
E fuga anche da un matrimonio obbligato.
In Italia le difficoltà per ‘regolarizzarsi’, per fare i documenti che durano da quasi due anni, e una dipendenza da qualcuno  che, con la scusa di proteggerla, approfitta di lei come donna, dal momento che è sola e che non ha familiari o parenti a cui rivolgersi.
Una situazione confusa anche per lei. Una situazione di cui si capisce che è prigioniera, che cerca di trasformare in qualcos’altro, qualcosa di accettabile con la forza della sua immaginazione e del desiderio di non avere paura.
E’ una donna laureata che lavora, che ama il suo Paese e le sue tradizioni, ma che a un certo punto si è resa conto di non poter più sopportare la situazione di vita in cui si trova, le consuetudini religiose e culturali sono sempre più soffocanti, non le è permesso di avere opinioni e modi di vivere diversi da quelli dati.
Venire in Italia ha significato scoprire una vita in cui puoi decidere di essere come sei e dire ciò che pensi, anche se devi ricominciare tutto da capo e devi imparare una nuova lingua per capire e farti capire.
Il corso di lingua italiana è stata una battaglia (anche tra lei e me insegnante) tra concezioni e modi di vivere l’essere donna. Un conflitto dovuto anche un meccanismo di difesa, il timore di guardarsi dentro ed essere sincera, riconoscere che la strada più giusta per essere se stessi, non è la più facile.
E’ stato anche una conquista di consapevolezza. Ordinare parole, frasi e pensieri, esprimersi, confrontarsi, le ha consentito di trovare la sua dimensione.
Stare nella classe di lingua italiana le ha permesso di  confrontarsi con gli altri in un modo democratico, in un luogo sicuro, dove puoi parlare ed essere ascoltata; puoi conoscere e rispettare altri pensieri ed altre culture perché possono coesistere… Ma ci sono delle regole di una società diversa da conoscere, perchè le regole condivise servono alla tutela dei diritti di tutti.
Samia esprime con i piccoli fiori che mi fa trovare sulla cattedra la sua gratitudine, ha capito di essere capita nel riso e nel pianto. Se non può venire, le dispiace e si giustifica. Sa dove poter trovare qualcuno di cui fidarsi, insieme alla lingua italiana, impara a conoscere i luoghi del territorio e la loro funzione sociale.
E così per me, per lei, la notizia che dà pienezza al traguardo di competenza raggiunta nella lingua italiana, è il fatto che Amira abbia trovato un lavoro e abbia preso un appartamento da condividere con un’amica.
E’ semplicemente questo il successo che cerchiamo.

domenica 21 settembre 2014

Nawal, l'angelo dei siriani in fuga dalla guerra di Daniele Biella - su VITA.it

MIGRANTI

Ha 26 anni, di origini marocchine, è arrivata a Catania da piccola: da lì aiuta in modo volontario migliaia di migranti a sopravvivere al viaggio della disperazione nel Mediterraneo e a non cedere al racket degli 'scafisti di terra'. Anche per le autorità e per Mare nostrum è un punto di riferimento oggi insostituibile, anche se non l'hanno mai incontrata ufficialmente

nawal
Nawal Soufi, 26 anni - Fonte: Marinella Fiaschi
Se le persone che viaggiano con i barconi della morte nel Mediterraneo hanno un angelo, il suo nome è Nawal. Se i funzionari dell’Operazione Mare nostrum e le Capitanerie di porto di tutto il Sud Italia devono ringraziare qualcuno per facilitare il loro compito, ovvero il salvare più vite possibili (tante, almeno 120 mila dall'ottobre 2013, ma purtroppo non tutte: le stime parlano di duemila tra morti e dispersi, tra cui il caso eclatante del naufragio del 2 agosto 2014, con 280 persone che mancano all'appello, e del 27 agosto, dove i dispersi sono 200), devono dire grazie a Nawal. Se noi giornalisti possiamo fare il nostro mestiere raccontando per filo e per segno quello che accade superando anche i silenzi e le attese delle risposte istituzionali, lo dobbiamo a persone come Nawal.
Chi è Nawal? Una ragazza, una donna, di 26 anni. Che di cognome fa Soufi, è nata in Marocco ma fin da piccola vive a Catania, sotto l’Etna: ha conservato la lingua materna araba e le ha affiancata un italiano perfetto, appreso sui banchi di scuola. Attiva nel sociale da anni, fin dalla scorsa primavera Nawal è onnipresente per dare una mano ai profughi, siriani in particolare, che passano dalla sua città ma non solo: è in stazione dei treni ad accogliere chi arriva dai centri di prima accoglienza e vuole raggiungere il Nord Europa per chiedere asilo lassù, accompagna alle visite mediche le persone che ne hanno bisogno, aiuta nell’accoglienza anche chiedendo a parenti e amici quando i posti nelle strutture del territorio non bastano più, e nei casi più drammatici si reca assieme ai parenti a riconoscere le salme dei corpi recuperati senza vita dal mare, come accade quando la raggiungiamo al telefono. “E’ un disastro, una tragedia dopo l’altra. Non dormo la notte, ma se penso alle centinaia di persone che incontro ogni giorno dopo essere fuggite dalla guerra, mi dico che è impossibile fermare quello che sto facendo”. Per essere sempre ‘a disposizione’ (dei profughi, che già dalla partenza hanno il suo cellulare e chiamano lei per lanciare un Sos, come successo oggi in questo link, di Mare nostrum, che di recente per la sua autorevolezza l’ha addirittura inserita nella task force dei mediatori e traduttori, ma senza riconoscerle alcun ruolo ufficiale, figurarsi un compenso) ha messo in stand by ogni altro aspetto della sua vita da studente e, nell’estate più tragica di sempre per le acque del Mar Mediterraneo, non si è concessa un solo giorno di vacanza.
È determinata Nawal, il fisico longilineo va di pari passo con uno spirito mai domo, che urla nei megafoni delle piazze l’assurdità delle guerre assieme alle responsabilità della Fortezza Europa dopo anni di respingimenti in mare e incapacità di arginare il business dei trafficanti di uomini, in Libia come in Egitto. Le arrivano video strazianti, prove inconfutabili dell’efferatezza degli scafisti, lei fa da cassa di risonanza: “li metto su facebook perché tutti possano vedere quello che accade, così come ho diffuso tutorial che spiegano come comportarsi in ogni momento del viaggio”, spiega. Video che vengono condivisi migliaia di volte, così come sono quasi migliaia le persone che seguono la sua pagina pubblica (scritta soprattutto in arabo) Nawal Syriahorra Sos, dove Syriahorra sta per ‘Siria libera’, come la vorrebbe lei e gran parte della gente in fuga (in tre anni e mezzo di guerra tra il regime di Assad e le fazioni ribelli, tra i 180mila morti e i dieci milioni di profughi metà della popolazione siriana ha lasciato le proprie case). È tramite lei che vediamo le tremende immagini di passeur senza scrupoli o umanità che lanciano bambini, forzando così i genitori a fare lo stesso, da una nave all’altra tra l’Egitto e l’Italia in attesa di raggiungere un ‘buon numero’ di passeggeri per andare incontro alle navi di Mare nostrum. Ancora, è tramite un video diffuso pochi giorni fa che vediamo come i funzionari, in questo caso maltesi, obbligano con la violenza i profughi a lasciare le proprie impronte digitali: “avevo segnalato io l’imbarcazione all’Italia dopo aver ricevuto la chiamata di uno dei passeggeri, mi hanno detto che era in acque maltesi e quindi è intervenuta la Guardia costiera di Malta portandoli sull’isola, da una parte c’è il sollievo per il salvataggio dall’altra l’angoscia per come vengono trattati”, sottolinea commossa Nawal.
Gran parte del suo impegno quotidiano sta anche nel non far cadere i profughi arrivati a Catania tra le grinfie di chi se ne vuole approfittare, “’scafisti di terra’ che chiedono loro 500 euro a testa per un passaggio da Catania a Milano” (dai quali, tra l'altro, non sono mancate le minacce), nel raccogliere le segnalazioni delle famiglie che non trovano un proprio caro nella speranza, spesso vana, che venga ritrovato in un altro centro di accoglienza. “Ogni volta che parte un treno per il Nord Italia, segnalo ai contatti a Milano il numero di quelli che sono saliti, per non perderne neanche uno”, sottolinea Nawal. Neanche uno: ogni vita, ogni persona che ce la fa, è una gemma di speranza che in qualche modo ridà dignità a chi è stato inghiottito dal mare o annientato da sole e stenti.
Lascia sempre uno dei suoi cellulari accesi, Nawal. “Ricevo gli Sos a ogni ora del giorno e della notte, come posso spegnerli?”, chiede. È sempre disponibile, per tutti. Quando i volontari delle associazioni milanesi (che in Centrale, spalla a spalla con i funzionari comunali, sono anch’essi più che ammirevoli nell’aiutare i profughi) fanno sapere a Nawal che un treno è arrivato e le persone sono state prese in consegna, lei tira un sospiro di sollievo. Che le permette di andare avanti, continuando un’opera che forse, un giorno, le verrà riconosciuta pubblicamente, “anche se a me per ora bastano i sorrisi dei bambini, gli abbracci della gente”. Al Festival internazionale del cinema di Marzamemi, a fine luglio, è stata premiata come ‘Donna di frontiera’. Meriterebbe ancora di più. Ma soprattutto sarebbe necessario, oggi più che mai, che persone come lei arrivino a essere il fiore all’occhiello delle istituzioni, non un sostituto, guidato ‘solo’ da tanta buona volontà: perché se Nawal si dovesse ammalare, o anche solo stancare, nella gestione dell’accoglienza dei migranti in fuga dalle guerre rimarrebbe un vuoto incolmabile. Anzi, inaccettabile.

domenica 14 settembre 2014

«Non puoi fuggire da te stesso per sempre, devi fare ritorno, riuscire ad Amarti» (Jung)

da Carl Gustav Jung-Italia

14 settembre 2014
« […] È facile amare qualcun altro, ma amare ciò che sei, quella cosa che coincide con te, è esattamente come stringere a sé un ferro incandescente: ti brucia dentro, ed è un vero supplizio. Perciò amare in primo luogo qualcun altro è immancabilmente una fuga da tutti noi sperata, e goduta, quando ne siamo capaci. Ma alla fine i nodi verranno al pettine: non puoi fuggire da te stesso per sempre, devi fare ritorno, ripresentarti per quell’esperimento, sapere se sei realmente in grado d’amare. È questa la domanda – sei capace d’amare te stesso? – e sarà questa la prova. […] »
(C.G.Jung, Lo Zarathustra di Nietzsche, Seminari)
(grazie mille a Teresa d’Anna per questa magnifica segnalazione)
«Si fa di tutto, anche le cose più strane, pur di sfuggire alla propria anima. (…)tutto, perché non si sa affrontare sé stessi.»
(C.G.Jung)

domenica 7 settembre 2014

L'India in Italia. dal corso CELI con l'Università per Stranieri di Perugia e Il Ministero dell'Interno 2010 - Sabaudia LT


Nel corso svolto, abbiamo conosciuto tanti ragazzi indiani che lavorano nella pianura pontina. Lavorano spesso giornate lunghissime per pochi euro l'ora, ma qui ci sono anche imprenditori molto attenti, noi li abbiamo incontrati. Qual'è la caratteristica che li accomuna? La mansuetudine, la fiducia ottimistica nella vita, la gentilezza con cui si propongono nelle relazioni sociali. Cercano di apprendere più che possono, la lingua italiana, ma non solo. Quasi tutti diplomati, se non di più, parlano inglese.
Sono queste le persone che qualcuno vuole punire? Cerchiamo di guardarci intorno, di comprendere come abbiamo bisogno gli uni degli altri, di mettere al centro il senso della giustizia e dell'eguaglianza, senza l'aggressività che non consente la possibilità di dialogo e la risoluzione dei conflitti con tutta l'umanità di cui abbiamo bisogno.
A seguire un video

https://www.flickr.com/photos/artincantiere/5820684923/

E questo è il budino di riso che ho imparato a fare

sabato 6 settembre 2014

Meraviglie dall'Italia dai mille paesaggi: da Roma a Porto d'Ascoli lungo la Salaria- Lago di San Ruffino, Amandola e altro

La Salaria è una delle vie consolari voluta dai Romani...ci sono tratti di verde e di paesaggio spettacolari, è difficile fermarsi lì per poter fotografare, ma posso affermare che è bellissimo il tratto appenninico che si percorre. Si attraversano le terme di Cotilia e altri paesi; alcuni si avvistano aggrappati sulle pendici delle colline e dei monti e ti chiedi come abbiano fatto a costruirli...






















Il lago di San Ruffino.
Grazie a Wega Filofest 2014 che ha organizzato in questi luoghi le sue attività. 









Amandola

















Bacugno, è il paese delle vacanze di mia madre da bambina. Il paese della famiglia della sua mamma.

Ciao Bacugno