Recensione: Anna Foa, Portico d’Ottavia 13 |
Anna Foa è una studiosa dell’età moderna
che ha da poco lasciato l’insegnamento presso la Facoltà di Lettere
della Sapienza di Roma. Specialista di storia della cultura, storia
della mentalità e storia ebraica, ha dedicato lavori significativi agli
eretici nello Stato della Chiesa, alla figura di Giordano Bruno e alle
vicende degli ebrei europei dal Trecento all’Ottocento. Quest’ultimo
filone d’indagine la ha poi portata a inoltrarsi ancor più nell’età
contemporanea con una storia “globale” degli ebrei tra la fine
dell’Ottocento e gli anni Settanta del secolo scorso (Diaspora. Storia
degli ebrei nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 2009). È infine
co-autrice, insieme ad Anna Bravo e Lucetta Scaraffia, di un manuale di
storia per le scuole superiori (I nuovi fili della memoria. Uomini e
donne della storia, Laterza, Roma-Bari 2003).
Con Portico d’Ottavia 13 Foa
prosegue le proprie incursioni in ambito contemporaneistico, questa
volta prendendo in esame la persecuzione subita dagli ebrei romani
durante l’occupazione tedesca della città tra il settembre 1943 e il
giugno 1944. Si tratta di un tema che è stato ampiamente esplorato dalla
storiografia – soprattutto per quello che può esserne considerato
l’evento cardine, ovvero il rastrellamento del 16 ottobre 1943 – ma che
l’autrice affronta da una prospettiva inedita. La novità è rappresentata
dalla scelta di concentrare l’attenzione su un singolo edificio: un
antico fabbricato di abitazione situato appunto in via del Portico
d’Ottavia al civico 13, nel cuore del centro storico, proprio al confine
di quello che fino al 1870 era stato il ghetto di Roma. Un edificio che
nel 1943 era abitato interamente da ebrei, con l’unica parziale
eccezione di un falegname che aveva una bottega al pianterreno. Un
edificio affascinante e misterioso, dalla struttura interna molto
articolata, con logge e un cortile colonnato, con percorsi intricati e
un’alternanza tra spazi angusti e improvvise aperture. Un edificio, tra
l’altro, cui l’autrice è legata sul piano personale, avendovi vissuto
per dodici anni.
C’è dunque anche una spinta
autobiografica alla radice del libro, che narra con trasporto le vicende
della «Casa» (l’edificio è indicato con questo nome comune) e dei suoi
abitanti durante i nove mesi dell’occupazione tedesca. Il racconto si
snoda attraverso nove agili capitoli che seguono un andamento
cronologico a partire dal rastrellamento del 16 ottobre ’43 – durante il
quale nella Casa furono arrestate 35 persone – fino ai processi
intentati nel dopoguerra per collaborazionismo con i tedeschi e
sequestro di beni o di persona. Rispetto al 16 ottobre, emerge
l’importanza delle scelte e delle iniziative personali ma anche tutto il
peso delle circostanze fortuite che portarono alcuni a salvarsi dalla
deportazione e altri a essere inghiottiti dalla macchina di morte dei
campi di sterminio nazisti. Così, se molti uomini riuscirono a fuggire
dalle finestre o dai tetti, venne invece catturata una donna incinta
che, pur essendo sfollata in provincia, in quei giorni era tornata a
Roma per partorire; stessa sorte per un’altra donna che, insieme ai
figli, si era fermata a dormire dai parenti; ma vi fu anche chi sfuggì
alla cattura grazie al fatto di essere uscito presto di casa per andare a
fare la fila per le agognate sigarette.
Molto interessante risulta la ricostruzione della storia della Casa e dei suoi abitanti dopo
il 16 ottobre, da cui emerge la tendenza di coloro che erano scampati
al rastrellamento a tornare nelle proprie abitazioni, magari solo per
qualche giorno, o comunque a gravitare intorno al vecchio ghetto: ciò
che poteva esporli maggiormente al rischio di essere individuati ma
consentiva anche di mantenere un legame con i riferimenti della vita
quotidiana e offriva una preziosa rete di solidarietà o almeno un certo
senso di protezione. Ne escono poi confermati diversi aspetti salienti
della deportazione degli ebrei romani già messi in luce dalla
storiografia: il ruolo determinante dei delatori correligionari – tra
cui Celeste di Porto, la “Pantera nera” del ghetto – negli arresti dei
mesi seguenti, tutti effettuati dalle famigerate bande di fascisti
italiani come la Cialli-Mezzaroma; il soccorso prestato ai fuggitivi dai
romani non ebrei, che li aiutarono a scappare e a nascondersi; la
generosa accoglienza da parte degli istituti religiosi cattolici (che
fece da contraltare alla mancanza di una decisa presa di posizione
ufficiale da parte del Vaticano nei confronti della deportazione), in
questo caso soprattutto grazie all’impegno di don Giovanni Gregorini,
parroco della chiesa di San Benedetto al Gazometro dove si rifugiarono
parecchi abitanti della Casa.
Altri aspetti che meritano di essere
segnalati sono la complessità dei rapporti interni alla comunità ebraica
e l’ambiguità dei delatori, che segnalarono alcuni correligionari ai
fascisti mentre aiutarono altri a sfuggire all’arresto; o il ruolo
ambivalente delle reti di vicinato e delle relazioni tra ebrei e non
ebrei all’interno del quartiere, che in virtù della conoscenza reciproca
potevano attivare forme di protezione e soccorso ma anche rendere molto
più agevole la cattura; o ancora, l’apparente mancanza di regole e di
coerenza dei fascisti che, mossi dall’antisemitismo ma anche e
soprattutto dalla brama di guadagno, talvolta arrestavano tutti gli
ebrei che individuavano, talaltra lasciavano libere donne e bambini, in
qualche raro caso addirittura degli uomini. Aspetti non facili da
decifrare in maniera univoca, anzi talvolta così complessi e
contraddittori che rendono impossibile tracciare confini netti e
lasciano delle zone d’ombra che resistono allo sforzo analitico della
ricerca. Interessante, infine, l’analisi dei procedimenti penali per
collaborazionismo, saccheggio e sequestro di persona intentati nel
dopoguerra, dalle sentenze di alcuni dei quali traspare anche, nelle
pieghe del linguaggio, la permanenza di stereotipi antisemiti.
Dal punto di vista documentario, il
libro è basato sull’intreccio tra fonti archivistiche (carte
dell’Archivio storico della Comunità ebraica romana e fascicoli
processuali conservati presso l’Archivio di Stato di Roma) e fonti
dell’io: diari e memorie pubblicati in tempi diversi e testimonianze
orali, in parte tratte dall’archivio della USC Shoah Foundation (sfi.usc.edu) e dal sito della Comunità ebraica (www.memoriebraiche.it),
in parte raccolte dall’autrice attraverso colloqui con i protagonisti
di quegli eventi o con i loro discendenti. Il lavoro si inserisce dunque
in quell’ampio filone di studi sulla Shoah incentrato sulle
testimonianze dei sopravvissuti, che recentemente ha prodotto una pietra
miliare come il volume di Christopher Browning, Lo storico e il testimone. Il campo di lavoro nazista di Starachowice, Laterza,
Roma-Bari 2011. Da tutt’altro punto di vista, l’approccio microstorico e
l’ampio ricorso alle fonti dell’io consente di avvicinare lo studio di
Foa a quelle “storie di case” incentrate su singoli edifici o complessi
residenziali che negli ultimi anni hanno rappresentato una significativa
novità nell’ambito della storia urbana italiana (si veda J. Foot, Micro-history of a House: Memory and Place in a Milanese Neighbourhood, 1890-2000, «Urban History», 2007, 34, 3, pp. 431-453; F. De Pieri, B. Bonomo, G. Caramellino, F. Zanfi, a cura di, Storie di case. Abitare l’Italia del boom, Donzelli, Roma 2013).
Nel complesso, Portico d’Ottavia 13
si segnala come un libro interessante e ben concepito, che ricostruisce
sinteticamente ma con intelligenza e un marcato gusto per il dettaglio
alcune di quelle minute storie individuali e familiari che nel loro
intreccio compongono il quadro della “grande storia” rappresentata in
questo caso dalla seconda guerra mondiale e dalla Shoah. Grazie a felici
soluzioni narrative (come quella di ricostruire il rastrellamento del
16 ottobre “porta a porta”, partendo dalle famiglie che abitavano al
pianterreno e poi salendo le scale della Casa e seguendone gli intricati
percorsi interni come se si stessero seguendo le orme dei nazisti a
caccia degli ebrei), l’autrice riesce anche a restituire efficacemente
tutta la concitazione degli eventi e la drammaticità delle circostanze
che si trovarono ad affrontare gli abitanti della Casa.
Tuttavia, il volume suscita anche
qualche riserva. In un lavoro di ricerca, la scelta di non esibire
puntualmente le fonti (il testo è privo di note, presumibilmente
nell’ottica di privilegiare la leggibilità rispetto alla trasparenza dei
marchi di storicità) risulta frustrante per il lettore che vorrebbe
capire precisamente su quali basi documentarie si fondi la ricostruzione
dei singoli episodi narrati. Inoltre, qualche zona d’ombra investe
l’uso delle fonti orali. Per quanto riguarda le testimonianze raccolte
dall’autrice, non è chiaro se si tratti di semplici colloqui o vere e
proprie interviste registrate, né si fa menzione, in questo secondo
caso, di luoghi e modalità della conservazione: il che di fatto preclude
l’accesso a queste fonti e quindi anche la loro verificabilità. La
critica delle fonti resta poi in un alveo piuttosto tradizionale,
riducendosi in sostanza alla questione della “veridicità” o
attendibilità fattuale dei ricordi. Significativo, al riguardo, quanto
si legge a p. 25, dove l’autrice spiega che per ricostruire le
esperienze e le peripezie degli abitanti della Casa scampati alla razzia
del 16 ottobre «possiamo ricorrere alla memoria e interrogare i
testimoni rimasti, che allora erano giovanissimi, oppure in mancanza di
essi i loro figli, sperando che i racconti che hanno ascoltato siano
accurati e che li ricordino senza troppe confusioni o orpelli». La
memoria, insomma, resta solo una fonte e non diventa anche un oggetto
della ricerca, secondo una prospettiva analitica la cui proficuità ci è
stata mostrata dagli specialisti di storia orale. In questo caso, ad
esempio, il quadro di intensa condivisione e incondizionata solidarietà
tra gli abitanti che sembra contraddistinguere la vita nella Casa prima
dell’occupazione tedesca (pp. 19-20) può in qualche misura essere il
frutto di una costruzione retrospettiva della memoria elaborata
successivamente anche sull’onda dei tragici eventi che segnarono i nove
mesi? Può agire qui il rimpianto per una sorta di età dell’innocenza
spazzata via dagli orrori della guerra e della Shoah? O il desiderio,
magari anche inconsapevole, di esaltare l’armonia dei rapporti di
vicinato poi infranta per effetto di dinamiche attivate dall’esterno?
In conclusione, come si vede, questo
lavoro non si limita ad approfondire una vicenda specifica arricchendo
il quadro delle conoscenze su eventi già largamente esplorati dalla
storiografia ma ha il pregio, tipico della migliore ricerca storica, di
suscitare ulteriori domande, che potranno anche contribuire a orientare
gli studi di quanti vorranno in futuro misurarsi con questi temi.
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Bruno Bonomo
Ricercatore indipendente di storia contemporanea, ha insegnato presso la Sapienza Università di Roma e l’Università della Tuscia. I suoi interessi di ricerca vertono sulla storia urbana, la storia della casa e dell’abitare, la metodologia della ricerca storica. Tra le sue pubblicazioni: Voci della memoria. L’uso delle fonti orali nella ricerca storica, Carocci, Roma 2013; Il quartiere delle Valli. Costruire Roma nel secondo dopoguerra, Franco Angeli, Milano 2007; Città di parole. Storia orale da una periferia romana, Donzelli, Roma 2006 (con A. Portelli, A. Sotgia, U. Viccaro). |
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