lunedì 26 gennaio 2015

Anna Foa, Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43, Laterza, Roma-Bari 2013 di Bruno Bonomo

Recensione: Anna Foa, Portico d’Ottavia 13 Stampa E-mail

Anna Foa è una studiosa dell’età moderna che ha da poco lasciato l’insegnamento presso la Facoltà di Lettere della Sapienza di Roma. Specialista di storia della cultura, storia della mentalità e storia ebraica, ha dedicato lavori significativi agli eretici nello Stato della Chiesa, alla figura di Giordano Bruno e alle vicende degli ebrei europei dal Trecento all’Ottocento. Quest’ultimo filone d’indagine la ha poi portata a inoltrarsi ancor più nell’età contemporanea con una storia “globale” degli ebrei tra la fine dell’Ottocento e gli anni Settanta del secolo scorso (Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 2009). È infine co-autrice, insieme ad Anna Bravo e Lucetta Scaraffia, di un manuale di storia per le scuole superiori (I nuovi fili della memoria. Uomini e donne della storia, Laterza, Roma-Bari 2003).
Con Portico d’Ottavia 13 Foa prosegue le proprie incursioni in ambito contemporaneistico, questa volta prendendo in esame la persecuzione subita dagli ebrei romani durante l’occupazione tedesca della città tra il settembre 1943 e il giugno 1944. Si tratta di un tema che è stato ampiamente esplorato dalla storiografia – soprattutto per quello che può esserne considerato l’evento cardine, ovvero il rastrellamento del 16 ottobre 1943 – ma che l’autrice affronta da una prospettiva inedita. La novità è rappresentata dalla scelta di concentrare l’attenzione su un singolo edificio: un antico fabbricato di abitazione situato appunto in via del Portico d’Ottavia al civico 13, nel cuore del centro storico, proprio al confine di quello che fino al 1870 era stato il ghetto di Roma. Un edificio che nel 1943 era abitato interamente da ebrei, con l’unica parziale eccezione di un falegname che aveva una bottega al pianterreno. Un edificio affascinante e misterioso, dalla struttura interna molto articolata, con logge e un cortile colonnato, con percorsi intricati e un’alternanza tra spazi angusti e improvvise aperture. Un edificio, tra l’altro, cui l’autrice è legata sul piano personale, avendovi vissuto per dodici anni.
C’è dunque anche una spinta autobiografica alla radice del libro, che narra con trasporto le vicende della «Casa» (l’edificio è indicato con questo nome comune) e dei suoi abitanti durante i nove mesi dell’occupazione tedesca. Il racconto si snoda attraverso nove agili capitoli che seguono un andamento cronologico a partire dal rastrellamento del 16 ottobre ’43 – durante il quale nella Casa furono arrestate 35 persone – fino ai processi intentati nel dopoguerra per collaborazionismo con i tedeschi e sequestro di beni o di persona. Rispetto al 16 ottobre, emerge l’importanza delle scelte e delle iniziative personali ma anche tutto il peso delle circostanze fortuite che portarono alcuni a salvarsi dalla deportazione e altri a essere inghiottiti dalla macchina di morte dei campi di sterminio nazisti. Così, se molti uomini riuscirono a fuggire dalle finestre o dai tetti, venne invece catturata una donna incinta che, pur essendo sfollata in provincia, in quei giorni era tornata a Roma per partorire; stessa sorte per un’altra donna che, insieme ai figli, si era fermata a dormire dai parenti; ma vi fu anche chi sfuggì alla cattura grazie al fatto di essere uscito presto di casa per andare a fare la fila per le agognate sigarette.
Molto interessante risulta la ricostruzione della storia della Casa e dei suoi abitanti dopo il 16 ottobre, da cui emerge la tendenza di coloro che erano scampati al rastrellamento a tornare nelle proprie abitazioni, magari solo per qualche giorno, o comunque a gravitare intorno al vecchio ghetto: ciò che poteva esporli maggiormente al rischio di essere individuati ma consentiva anche di mantenere un legame con i riferimenti della vita quotidiana e offriva una preziosa rete di solidarietà o almeno un certo senso di protezione. Ne escono poi confermati diversi aspetti salienti della deportazione degli ebrei romani già messi in luce dalla storiografia: il ruolo determinante dei delatori correligionari – tra cui Celeste di Porto, la “Pantera nera” del ghetto – negli arresti dei mesi seguenti, tutti effettuati dalle famigerate bande di fascisti italiani come la Cialli-Mezzaroma; il soccorso prestato ai fuggitivi dai romani non ebrei, che li aiutarono a scappare e a nascondersi; la generosa accoglienza da parte degli istituti religiosi cattolici (che fece da contraltare alla mancanza di una decisa presa di posizione ufficiale da parte del Vaticano nei confronti della deportazione), in questo caso soprattutto grazie all’impegno di don Giovanni Gregorini, parroco della chiesa di San Benedetto al Gazometro dove si rifugiarono parecchi abitanti della Casa.
Altri aspetti che meritano di essere segnalati sono la complessità dei rapporti interni alla comunità ebraica e l’ambiguità dei delatori, che segnalarono alcuni correligionari ai fascisti mentre aiutarono altri a sfuggire all’arresto; o il ruolo ambivalente delle reti di vicinato e delle relazioni tra ebrei e non ebrei all’interno del quartiere, che in virtù della conoscenza reciproca potevano attivare forme di protezione e soccorso ma anche rendere molto più agevole la cattura; o ancora, l’apparente mancanza di regole e di coerenza dei fascisti che, mossi dall’antisemitismo ma anche e soprattutto dalla brama di guadagno, talvolta arrestavano tutti gli ebrei che individuavano, talaltra lasciavano libere donne e bambini, in qualche raro caso addirittura degli uomini. Aspetti non facili da decifrare in maniera univoca, anzi talvolta così complessi e contraddittori che rendono impossibile tracciare confini netti e lasciano delle zone d’ombra che resistono allo sforzo analitico della ricerca. Interessante, infine, l’analisi dei procedimenti penali per collaborazionismo, saccheggio e sequestro di persona intentati nel dopoguerra, dalle sentenze di alcuni dei quali traspare anche, nelle pieghe del linguaggio, la permanenza di stereotipi antisemiti.
Dal punto di vista documentario, il libro è basato sull’intreccio tra fonti archivistiche (carte dell’Archivio storico della Comunità ebraica romana e fascicoli processuali conservati presso l’Archivio di Stato di Roma) e fonti dell’io: diari e memorie pubblicati in tempi diversi e testimonianze orali, in parte tratte dall’archivio della USC Shoah Foundation (sfi.usc.edu) e dal sito della Comunità ebraica (www.memoriebraiche.it), in parte raccolte dall’autrice attraverso colloqui con i protagonisti di quegli eventi o con i loro discendenti. Il lavoro si inserisce dunque in quell’ampio filone di studi sulla Shoah incentrato sulle testimonianze dei sopravvissuti, che recentemente ha prodotto una pietra miliare come il volume di Christopher Browning, Lo storico e il testimone. Il campo di lavoro nazista di Starachowice, Laterza, Roma-Bari 2011. Da tutt’altro punto di vista, l’approccio microstorico e l’ampio ricorso alle fonti dell’io consente di avvicinare lo studio di Foa a quelle “storie di case” incentrate su singoli edifici o complessi residenziali che negli ultimi anni hanno rappresentato una significativa novità nell’ambito della storia urbana italiana (si veda J. Foot, Micro-history of a House: Memory and Place in a Milanese Neighbourhood, 1890-2000, «Urban History», 2007, 34, 3, pp. 431-453; F. De Pieri, B. Bonomo, G. Caramellino, F. Zanfi, a cura di, Storie di case. Abitare l’Italia del boom, Donzelli, Roma 2013).
Nel complesso, Portico d’Ottavia 13 si segnala come un libro interessante e ben concepito, che ricostruisce sinteticamente ma con intelligenza e un marcato gusto per il dettaglio alcune di quelle minute storie individuali e familiari che nel loro intreccio compongono il quadro della “grande storia” rappresentata in questo caso dalla seconda guerra mondiale e dalla Shoah. Grazie a felici soluzioni narrative (come quella di ricostruire il rastrellamento del 16 ottobre “porta a porta”, partendo dalle famiglie che abitavano al pianterreno e poi salendo le scale della Casa e seguendone gli intricati percorsi interni come se si stessero seguendo le orme dei nazisti a caccia degli ebrei), l’autrice riesce anche a restituire efficacemente tutta la concitazione degli eventi e la drammaticità delle circostanze che si trovarono ad affrontare gli abitanti della Casa.
Tuttavia, il volume suscita anche qualche riserva. In un lavoro di ricerca, la scelta di non esibire puntualmente le fonti (il testo è privo di note, presumibilmente nell’ottica di privilegiare la leggibilità rispetto alla trasparenza dei marchi di storicità) risulta frustrante per il lettore che vorrebbe capire precisamente su quali basi documentarie si fondi la ricostruzione dei singoli episodi narrati. Inoltre, qualche zona d’ombra investe l’uso delle fonti orali. Per quanto riguarda le testimonianze raccolte dall’autrice, non è chiaro se si tratti di semplici colloqui o vere e proprie interviste registrate, né si fa menzione, in questo secondo caso, di luoghi e modalità della conservazione: il che di fatto preclude l’accesso a queste fonti e quindi anche la loro verificabilità. La critica delle fonti resta poi in un alveo piuttosto tradizionale, riducendosi in sostanza alla questione della “veridicità” o attendibilità fattuale dei ricordi. Significativo, al riguardo, quanto si legge a p. 25, dove l’autrice spiega che per ricostruire le esperienze e le peripezie degli abitanti della Casa scampati alla razzia del 16 ottobre «possiamo ricorrere alla memoria e interrogare i testimoni rimasti, che allora erano giovanissimi, oppure in mancanza di essi i loro figli, sperando che i racconti che hanno ascoltato siano accurati e che li ricordino senza troppe confusioni o orpelli». La memoria, insomma, resta solo una fonte e non diventa anche un oggetto della ricerca, secondo una prospettiva analitica la cui proficuità ci è stata mostrata dagli specialisti di storia orale. In questo caso, ad esempio, il quadro di intensa condivisione e incondizionata solidarietà tra gli abitanti che sembra contraddistinguere la vita nella Casa prima dell’occupazione tedesca (pp. 19-20) può in qualche misura essere il frutto di una costruzione retrospettiva della memoria elaborata successivamente anche sull’onda dei tragici eventi che segnarono i nove mesi? Può agire qui il rimpianto per una sorta di età dell’innocenza spazzata via dagli orrori della guerra e della Shoah? O il desiderio, magari anche inconsapevole, di esaltare l’armonia dei rapporti di vicinato poi infranta per effetto di dinamiche attivate dall’esterno?
In conclusione, come si vede, questo lavoro non si limita ad approfondire una vicenda specifica arricchendo il quadro delle conoscenze su eventi già largamente esplorati dalla storiografia ma ha il pregio, tipico della migliore ricerca storica, di suscitare ulteriori domande, che potranno anche contribuire a orientare gli studi di quanti vorranno in futuro misurarsi con questi temi.

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Bruno Bonomo
Ricercatore indipendente di storia contemporanea, ha insegnato presso la Sapienza Università di Roma e l’Università della Tuscia. I suoi interessi di ricerca vertono sulla storia urbana, la storia della casa e dell’abitare, la metodologia della ricerca storica. Tra le sue pubblicazioni: Voci della memoria. L’uso delle fonti orali nella ricerca storica, Carocci, Roma 2013; Il quartiere delle Valli. Costruire Roma nel secondo dopoguerra, Franco Angeli, Milano 2007; Città di parole. Storia orale da una periferia romana, Donzelli, Roma 2006 (con A. Portelli, A. Sotgia, U. Viccaro).

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